La Manovra 2026 introduce una nuova soglia del 10% per l’esenzione fiscale sui dividendi, trasformando radicalmente il regime fiscale vigente dal 2003. L’esenzione del 95% dai redditi imponibili, che consentiva un’imposta effettiva dell’1,2%, sarà applicabile solo per partecipazioni pari o superiori al 10%. Per le quote inferiori, l’imposta sui dividendi salirà dal 1,2% al 24%. La misura comporterà un gettito fiscale aggiuntivo di circa 983 milioni nel 2026, raggiungendo 1 miliardo annuo dal 2027 e colpirà principalmente holding, family office e gruppi con partecipazioni di minoranza.
Le origini e il funzionamento del regime precedente
Prima della riforma della Manovra 2026, il sistema di tassazione dei dividendi era disciplinato da una normativa consolidata introdotta con il governo Berlusconi nel 2003. Questo regime, noto come “dividend exemption”, aveva l’obiettivo di eliminare il fenomeno della doppia imposizione sui profitti societari. In pratica, gli utili generati da una società venivano tassati una prima volta presso la società che li produceva, e una seconda volta presso la società partecipante che li riceveva sotto forma di dividendo. Per risolvere questo problema, la normativa prevedeva che il 95% dei dividendi fosse escluso dalla base imponibile, rendendo l’onere fiscale effettivo estremamente contenuto, pari circa all’1,2%.
Questo regime rappresentava un principio di neutralità fiscale lungo le catene partecipative ed era stato costruito recepiendo i principi di una direttiva europea. La semplicità della disciplina consisteva nel fatto che non era richiesta alcuna soglia minima di partecipazione: indipendentemente dalla percentuale di quote detenute in un’altra società, poteva beneficiare dell’esclusione del 95% dal reddito imponibile. Questa impostazione favoriva la mobilità del capitale e la formazione di strutture organizzative flessibili, permettendo anche ai piccoli azionisti e agli investitori istituzionali di gestire portafogli diversificati senza pesanti oneri fiscali sui dividendi.
La soglia del 10% esenzione dividendi nella nuova disciplina
La Manovra 2026 sovverte completamente questo paradigma introducendo una soglia minima di partecipazione del 10% del capitale della società erogante, come requisito essenziale per accedere al regime di esenzione parziale. L’articolo 18 del disegno di legge, approvato dal Consiglio dei Ministri il 17 ottobre 2025, interviene simultaneamente su due disposizioni fondamentali del Tuir: l’articolo 59, relativo ai soggetti Irpef imprenditori, e l’articolo 89, relativo ai soggetti Ires.
Partecipazioni dirette e il requisito della qualificazione
Per beneficiare dell’esenzione del 95%, le partecipazioni devono essere dirette e raggiungere almeno il 10% del capitale della società partecipata. Questa soglia rappresenta un cambio radicale rispetto al regime precedente, poiché introduce il concetto di “partecipazione qualificata” nella determinazione dei dividendi imponibili. Per le persone fisiche esercenti attività d’impresa, la parziale imponibilità dei dividendi viene quindi subordinata al possesso della partecipazione qualificata, con un’aliquota effettiva che passerà dall’attuale 58,14% di imponibilità a una tassazione molto più severa per le quote inferiori al 10%.
La novità crea una discontinuità netta rispetto all’impostazione vigente: mentre precedentemente non si distingueva tra partecipazioni qualificate e non qualificate, ora solo le prime possono usufruire del beneficio dell’esclusione quasi totale. Questa discriminazione è voluta dal legislatore proprio per ridefinire il perimetro dei soggetti beneficiari della tassa sui dividendi.
Partecipazioni indirette e il meccanismo di demoltiplicazione
Un aspetto importante della nuova disciplina riguarda la possibilità di considerare partecipazioni detenute indirettamente tramite società controllate per il raggiungimento della soglia del 10%. La norma consente cioè di applicare il cosiddetto meccanismo di “demoltiplicazione lungo la catena di controllo”, secondo quanto disposto dall’articolo 2359, comma 1, numero 1 del codice civile. Questo significa che se un soggetto detiene il 6% di una società A, che a sua volta detiene il 20% di una società B, è possibile computare il 6% per 20%, ottenendo l’1,2% di partecipazione indiretta in B.
Tale meccanismo consente ai gruppi aziendali e alle strutture organizzative complesse di mantenere in certi casi il beneficio dell’esenzione, purché la moltiplicazione delle partecipazioni lungo la catena di controllo raggiunga complessivamente il 10% nella società che eroga il dividendo. Tuttavia, questa regola non risolve il problema per i piccoli azionisti e i veicoli finanziari puri, che rimangono esclusi dal beneficio.
Impatto fiscale: dall’1,2% al 24% di tassazione effettiva
L’aumento dell’onere tributario per le minoranze
La conseguenza più immediata della riforma è il drastico aumento della tassazione sui dividendi da partecipazioni inferiori al 10%. Attualmente, per effetto dell’esclusione del 95% dai redditi imponibili, l’imposta effettiva è pari circa all’1,2%. Con la nuova disciplina, per le partecipazioni di minoranza i dividendi saranno tassati interamente con l’aliquota ordinaria del 24%, con un onere fiscale effettivo che raggiungerà il 24% del dividendo lordo. Questo rappresenta un aumento di oltre il 1900% dell’imposizione, una differenza rilevantissima che crea una frattura netta tra chi detiene il 10% e chi rimane al di sotto.
L’incremento è calcolato considerando l’imposta sui redditi delle società (Ires) più le eventuali addizionali regionali e comunali. Questo significa che il carico fiscale complessivo potrebbe risultare ancora più elevato in alcune regioni dove le addizionali locali sono più consistenti. Per una società che incassa dividendi significativi da partecipazioni di minoranza, questo divario comporta conseguenze patrimoniali notevoli e obbliga a riconsiderare completamente le strategie di investimento e di gestione della liquidità.
Stima del gettito fiscale e impatto strutturale
Secondo la relazione tecnica allegata al disegno di legge, il gettito atteso è di 983,2 milioni di euro nel 2026, con un incremento a 1,071 miliardi nel 2027 e a 1,080 miliardi dal 2028 in poi. Questo rappresenta un aumento strutturale e permanente delle entrate tributarie. Le stime del ministero dell’economia si basano sul presupposto che circa il 6% dei dividendi precedentemente esclusi dalla base imponibile riguarda partecipazioni inferiori al 10%, un dato che dimostra quanto significativa sia la massa di dividendi interessata dalla riforma.
L’impatto complessivo tiene conto non solo dell’Ires ma anche delle imposte derivanti dall’Irpef per i soggetti imprenditori persone fisiche e delle addizionali regionali e comunali che vengono applicate sui dividendi imponibili. Questa moltiplicazione di aliquote è considerata dal governo come una delle ragioni dell’elevato gettito atteso, e rappresenta una delle criticità sollevate dai commentatori sulla sostenibilità della misura per certi soggetti.
Chi è colpito dalla nuova tassazione
Holding, family office e veicoli finanziari
La riforma colpisce primariamente le holding e i family office costituiti da imprenditori per investire la liquidità generata dalla loro attività o dalla vendita dell’azienda di famiglia. Questi soggetti, tipicamente organizzati come società a responsabilità limitata o per azioni, mantengono portafogli di partecipazioni diversificate in più società, spesso con quote inferiori al 10% per ragioni di diversificazione del rischio e di governace. Con la nuova disciplina, questi veicoli di investimento vedranno azzerarsi completamente il beneficio fiscale sui dividendi ricevuti, dovendo sottostare al regime ordinario di tassazione.
Un secondo gruppo colpito è costituito dai fondi di investimento e dagli asset manager professionali, che operano attraverso società veicolo e gestiscono partecipazioni minoritarie in più società. Anche se la norma tecnicamente non riguarda i fondi di investimento nel loro funzionamento tipico, gli effetti si ripercuotono sulle loro strutture organizzative e sulla redditività netta delle operazioni. La misura rappresenta quindi un disincentivo importante verso la formazione di portafogli di minoranza e incentiva il consolidamento delle partecipazioni verso il raggiungimento del 10%.
Società, banche e gruppi industriali
Un terzo ambito interessato riguarda le grandi società, le banche e i gruppi industriali che detengono stabilmente partecipazioni inferiori al 10% in altre società. Questo fenomeno è particolarmente rilevante nei gruppi industriali complessi, dove la struttura organizzativa prevede la compartecipazione in società operative o di servizi con quote non majoritarie. Le banche, poi, spesso detengono partecipazioni di minoranza in società di gestione dei rischi, in società di service, o in veicoli di cartolarizzazione, per le quali è difficile raggiungere il 10%.
Per questi soggetti, la nuova disciplina crea forti incentivi economici a superare la soglia del 10% presso le società partecipate, oppure a dismettere completamente le quote. Questa conseguenza potrebbe portare a una ridislocazione degli assetti azionari, con concentrazioni di proprietà superiori al 10% oppure con la fuoriuscita di alcuni soggetti dagli assetti societari in cui non riescono a raggiungere tale soglia.
Applicazione e timeline della riforma
Data di entrata in vigore e distribuzioni rilevanti
La nuova disciplina si applicherà alle distribuzioni deliberate dal 1° gennaio 2026, come esplicitamente previsto dal testo della Manovra 2026. Questo significa che i dividendi deliberati successivamente a questa data, anche se incassati in anni successivi, seguiranno la nuova disciplina. È importante sottolineare che il legislatore ha voluto una data di effettività immediata, senza periodi transitori, per evitare che le società rimandassero le delibere di distribuzione a dopo la fine dell’anno.
La retroattività della disciplina alle delibere del 2026 crea tuttavia alcune questioni interpretative, in particolare riguardanti le distribuzioni di riserve già costituite e tassate negli anni precedenti. La letteratura civilistica sta ancora elaborando gli aspetti di coordinamento tra la nuova norma tributaria e il principio della neutralità del regime tributario rispetto alle scelte di finanziamento e distribuzione.
Questioni ancora aperte e adeguamenti necessari
Rimangono aperte diverse questioni interpretative sull’interazione della nuova disciplina con altre norme tributarie, quali le norme sulla doppia imposizione internazionale, le convenzioni contro le doppie imposizioni, e le particolari discipline previste per i dividendi da società estere. Inoltre, permane il dibattito sulla legittimità costituzionale della misura, in quanto alcuni commentatori evidenziano come la riforma introduca disincentivi strutturali agli investimenti di minoranza, potenzialmente contrastando con i principi di libertà di stabilimento e di circolazione dei capitali affermati dalla Corte costituzionale.
Il governo ha indicato che la misura resterà vigente a prescindere dai malumori espressi da alcuni settori della maggioranza politica, come Forza Italia, che ha richiesto l’eliminazione della norma sostenendo che essa rappresenta una “doppia tassazione” e una violazione dei principi di stabilità e coerenza del sistema tributario consolidati da oltre vent’anni. Tuttavia, la posizione del governo appare ferma nel mantenimento della riforma, considerato il rilevante gettito atteso.




